Steven Universe, classe 2013, è una serie americana prodotta per Cartoon Network dalla trinità composta da Rebecca Sugar, la sua forza di volontà e la sua voglia di trucidare tutti ai piani alti. La ragazza è un’ex fumettista indipendente e fu storyboarder per una tra le serie che fece da nido per i correnti autori di animazione americana, cioè Adventure Time. Sua è la puntata “Simon and Marcy”, una delle più emotivamente dense dell’intera serie; roba da farsi venire il magone ogniqualvolta si vede un pupazzo con gli occhi fatti con i bottoni.
Grandi premesse a parte, Steven Universe si presenta, come il suo genitore in alcune parti, caratterizzato da un tipo di narrazione immensamente più profonda e adulta rispetto agli standard considerati per bambini, senza però strabordare nell’animazione “per adulti” in cui rientrano stereotipicamente solo le comedy familiari con umorismo smaccatamente VM18 (con i Simpson sul confine, il mio sguardo trucido è rivolto principalmente ad American Dad e The Griffin) o in sostanza roba in cui la gente tira giù i santi dal Paradiso con la mitraglietta. Lo staff che stette dietro alla serie fu caratterizzato da una grande diversità, proprio perché la storia e l’annesso messaggio di fondo professano un indiscusso abbracciare qualsiasi tipo di differenza, prendere a testate i protocolli standard, tirare cazzotti all’omologazione e cercare di circumnavigare la censura tematica e narrativa. Il risultato? Un gran bel risultato che però costò fatica, sudore, sangue amaro e tagli di portata inverosimile, sia di budget che di promozione e di screentime effettivo. Agli stadi finali si giocò una partita a scacchi tra la produzione e l’esecutivo in cui per salvare il Re dovettero sacrificare l’alfiere, i pedoni, la regina, i paggetti, l’autista e anche l’abbonamento Netflix del portinaio, ma tutto sommato la serie giunse al termine senza mietere troppe vittime.
All’interno della corposa community di fan che si venne a creare nel corso dei 7 anni di run della serie, non mancarono le polemiche e ve ne furono di grosse: un vasto gruppo di appassionati caratterizzati dall’appartenenza a diverse minoranze fece sì che qualsiasi tipo di discussione portasse in terreni pericolosi e accidentati, letteralmente dei campi minati dove era possibile andare a toccare qualche argomento X di cui, chi parlava, spesso sapeva poco o parlava per sentito dire. Dall’altra parte di uno schermo, da qualche parte del mondo, Steven Universe aveva dato occasione di espressione a qualcuno direttamente toccato dall’argomento X, e come funzionano notorialmente i thread testuali su reddit, tumblr, twitter e 4chan, i discorsi più che limarsi si gonfiavano e s’ingrossavano, finendo poi in faccia a qualcuno.
Tralasciando i discorsi che andavano puramente a minare l’intimità dell’individuo, uno dei discorsi che venne fuori e per cui la serie venne molto criticata fu quella dell’essere spesso inconsistente dal punto di vista dei modelli dei personaggi -e di essere, quindi- “off-model”. In giapponese lo chiamerebbero “settei“, una specie di bibbia in cui sono contenuti gli schizzi utili con proporzioni, dettagli e via dicendo di location, personaggi, oggetti ricorrenti e così via: questa roba qui, pare, in Steven Universe mancasse, per cui ci sono degli episodi in cui un personaggio che dovrebbe essere notoriamente più basso di un altro si ritrova alla medesima altezza di quest’ultimo, che magari dovrebbe avere gli occhi che coprono una tot parte del viso, magari sono più piccoli o più grandi et similia.
Al di là della questione delle altezze e altre mancanze grossolane, che mi paiono sviste molto consistenti (le quali potrebbero essersi verificate in mancanza di abbastanza tempo per compiere degli animation check) che potrebbe essere evitata investendo molto di più in caffeina e attenzione, la diversificazione involontaria dei personaggi non penso abbia un impatto poi così negativo. Ovviamente si tratta anche in parte di un discorso di gusti, però c’è da ammettere che la modifica del design del personaggio in base allo storyboarder o artista del momento non fa che accentuare il discorso di inglobazione della diversità di cui la scelta dello staff e soprattutto dei temi degli episodi si sono fatti portavoce. Perchè si dovrebbe parlare di diversificazione e accoglienza delle individualità di ciascuno se poi l’obiettivo è rendere monocromatica una superficie caleidoscopica?
Riuscire a distinguere l’artista dietro il disegno della puntata è un bellissimo modo di dare a Cesare quel che è di Cesare, riconoscere e dar credito ai molti volti che si avvicendano dietro le quinte e di cui lo spettatore non è quasi mai a conoscenza. L’animazione è, più del cinema dal vivo, un prodotto di cooperazione, di un gruppo di persone con capacità estremamente differenti anche nella stessa area artigianale, che vanno a coprire i buchi che più si adattano alla loro forma, perché mai si dovrebbe nascondere una pletora di giovani diversi, dalle abilità ed esperienze differenti, dietro la semplice scritta “created by” seguita dal nome dello showrunner come se fosse l’unica divinità ubiqua, polipoietica e onniscente?
Oggigiorno sono pochissimi gli spettatori che non si sono mai nutriti di disegni animati, abbiamo tutti sbattuto la testa contro Dragonball e Biancaneve, contro Occhi di gatto e Cenerentola, siamo tutti figli del flusso di James Baxter e l’unicità Yoshinori Kanada.
In più siamo lontani dall’intoccabilità dell’illusione cinematografica tipica del cinema classico per cui il signor Walt Disney ha fatto da tedoforo: non si deve capire che il film è fatto da più persone, deve essere tutto identico. E perché mai? Sapendo inoltre che in una serie, più che in un film (anche se gli storyboarder per un film possono essere molteplici) vengono scelti per gli episodi storyboarder ad hoc in base alle proprie abilità, le quali si dovranno sposare bene con il setting e i temi della puntata, l’emersione del singolo e del proprio stile non può che verificarsi.
Perché una serie che punta tutto sul messaggio e mira a valorizzare le differenze dovrebbe strozzare gli artisti prima di sbocciare?